Guareschi ad Assisi, 1956. Foto di A. Minardi. Archivio Guareschi Roncole Verdi.
(Continua dalla Prima parte)
Ciò che rende particolarmente interessante l’enciclica Laudato si’ è l’approccio originale ai temi ambientali. Il rapporto con questa “casa comune”, nella quale l’uomo abita, e che papa Francesco propone, è occasione per un’autentica liberazione dell’uomo e non di liberazione dall’uomo. Comunemente, infatti, si ritiene che sia l’uomo ad alterare, con la sua presenza, l’equilibrio ambientale. Ciò si basa sulla convinzione che prima della comparsa dell’uomo la natura seguisse il suo divenire proprio e che l’avvento dell’uomo sia stato un elemento di disordine. L’uomo sarebbe dunque un intruso e la sua presenza andrebbe in qualche modo contrastata per salvaguardare l’ordine naturale. «In realtà» scrive il papa nell’enciclica, «l’intervento umano che favorisce il prudente sviluppo del creato è il modo più adeguato di prendersene cura, perché implica il porsi come strumento di Dio per aiutare a far emergere le potenzialità che Egli stesso ha inscritto nelle cose».
Qual è questo strumento? Questo “strumento” è il cuore umano che esprime un’esigenza di bellezza, di ordine, che – dice papa Francesco – scaturisce proprio dalla natura: «la natura è una continua sorgente di meraviglia». L’uomo si stupisce, si meraviglia, quando il proprio cuore trova corrispondenza nella realtà e per questo si lega a essa. Si potrebbe dire che non c’è unità senza meraviglia, senza un’attrattiva. Significativo a questo proposito è un racconto pubblicato da Guareschi nel 1957 e inserito nel volume Ciao, don Camillo col titolo La dote di Clementina. Si parla di una famiglia, la famiglia Rosi, che ogni tanto dalla città ritorna in campagna per trascorrere una giornata all’aria aperta. I Rosi hanno un piccolo podere affidato alle cure di un contadino, un terreno delimitato da un’enorme siepe che per Clementina, l’unica figlia, rappresenta “qualcosa di smisurato e di fiabesco”. Per Clementina, scrive Guareschi, «nel siepone c’era tutto: i nidi degli uccellini, sui rami altissimi dei piopponi quelli delle gazze, i cagapoi rossi, le more rosse e nere, il sambuco per fare gli schioppetti, i funghi, i prugnoli che pizzicano il palato e legano la lingua. Poi salici coi rametti morbidi buoni per fare i cestini, susine e mele piccole inselvatichite, sorbe, noci, fiori profumati di robinia, edera, muschio per il Presepe».
Il podere non rende granché ma il signor Rosi lo considera ugualmente un bene da cui non può separarsi. Infatti, crede che le ricchezze prodotte dalle industrie potranno essere polverizzate dallo stesso progresso tecnico e dalla scoperta di nuovi materiali. Mentre «l’unica cosa che rimarrà ciò che è sempre stata è la terra». Ma poi c’è un fatto molto più importante: il Rosi sa che quel siepone rende felice la figlia. Un giorno, ritornando in campagna, il signor Rosi nota però che il siepone non c’è più e chiede di questo ragione al contadino: come ha potuto pensare di distruggere una siepe così bella? «La bellezza non si mangia!» obietta il contadino. È una risposta che il signor Rosi non può condividere, ben sapendo quanto Clementina fosse felice potendo ammirare la bellezza del siepone con quegli uccelli e con quei frutti selvatici. Anche la felicità è un’esigenza dell’uomo, non soltanto la soddisfazione di un bisogno materiale. Rosi sa, anzi, che la felicità è una soddisfazione ancora più piena.
È qui che l’uomo trova una maggiore pienezza. «Non si addice ad abitanti di questo pianeta» scrive il papa nell’enciclica, «vivere sempre più sommersi da cemento, asfalto, vetro e metalli, privati del contatto fisico della natura. In alcuni luoghi, rurali e urbani, la privatizzazione degli spazi ha reso difficile l’accesso dei cittadini a zone di particolare bellezza».
La natura, come si è visto, rivela all’uomo qualcosa della sua origine, qualcosa che lo costituisce parte di un tutto, al quale appartiene ed è indissolubilmente legato. La natura è quella parte, quella “casa” – per riprendere un termine caro al papa – da cui, come in un’unica famiglia, nessuno può essere escluso o possa essere ritenuto un estraneo. Per questo, nessun uomo può essere privato di questo rapporto, del contatto fisico con la natura. A queste parole di papa Francesco fa eco Guareschi. Egli non aveva pregiudizi nei confronti del progresso tecnico ma sa che questo, oltre ai benefici che procura, espone al rischio di creare «una cortina d’acciaio fra gli individui rendendoli estranei e nemici». Spiega: «Io sono favorevole alla motorizzazione, ma vorrei che gli uomini non perdessero il contatto con la terra. Viaggiare in macchina va bene, ma non sempre ed esclusivamente in macchina: bisogna viaggiare anche a piedi. Ciò permette di ragionare col nostro cervello e di vedere le cose con quel distacco che le esigenze della macchina non permetterebbero mai».
Lo scopo della natura è quello di rivelare alle creature di essere parte di qualcosa di più grande, di infinitamente più grande del proprio orizzonte. Tanto grande da essere irriducibile. La natura, perciò, non può avere, come unico scopo, quello del suo uso. Scrive papa Francesco nella Laudato si’, richiamando i versi del Santo di Assisi: «“Laudatosi’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba”. Questa sorella protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla».
La posizione giusta che l’uomo deve avere è pertanto, come dice Guareschi, «vedere le cose con quel distacco». Paradossalmente, è proprio questo distacco che consente un vero possesso. Al contrario, porsi nei confronti della natura come «proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla», come ricorda il papa, porta l’uomo verso la sua alienazione. Milioni e miliardi è un racconto che fa parte dello Zibaldino di Giovannino Guareschi dove si narra del minatore Antonio che, a un certo punto, era diventato un ricchissimo proprietario. «Adesso possedeva una valanga di milioni» scrive Guareschi, «terre, ville automobili, yacht, motoscafo, gioielli, una biblioteca ricca di preziosi volumi, una galleria di quadri famosi. Eppure non sapeva cosa fare. Delle sue tenute egli capiva solo l’estensione, dei gioielli il prezzo, dei suoi libri il formato. Guardava i suoi quadri: molti non gli piacevano e li aveva comprati soltanto perché gli amici competenti gli avevano consigliato di comprarli».
Perciò, avverte lo scrittore, «non si rattristi chi non ha il danaro per andare all’opera o al concerto». Perché forse chi non ha nulla ma ha la capacità di stupirsi del creato, ha molto di più. «Il sola, la luna, le stelle, le pietre delle case piene di storie meravigliose, la vita che brulica sulla proda d’un fosso in primavera, la rugiada che brilla all’alba sulle foglie verdi, il cielo nel quale naviga la navicella della fantasia, i colori delle stagioni». Di fronte ai quali, cos’è il danaro, che valore hanno i milioni? Risponde Guareschi: «Voi avete il chiodino fisso nel cervello: strappatevelo. Cos’è un milione? Io vi presento il cavalier Luigi, la signora Francesca e Giacomino figlio dei due. La famigliola di un povero diavolo, ma tanto povero che è quasi impiegato dello Stato. Infatti è impiegato parastatale. Una famiglia dove si contano i granellini di riso, le foglioline d’insalata, e dove si tiene un considerazione il mezzo grammo e il quarto di pisello».
Insomma, un bel giorno il povero Luigi, secondo il racconto di Guareschi, propone alla famiglia di andare a far visita a un suo vecchio amico che ha avuto fortuna, il ricco Antonio appunto. Così avrebbero finalmente visto com’è fatto veramente un milione. Infatti, giunti a casa di Antonio, l’amico tira fuori un milione e lo mette bene in mostra sul tavolo. Vincendo l’emozione, Luigi e la sua famiglia si avvicinano al malloppo. Toccano il pacco di banconote, lo girano e lo rigirano tra le mani; comincia il lungo conteggio delle banconote: mille biglietti da mille. Terminata l’operazione, rimane però soltanto tanta delusione. «Credevo fossero molti di più» commenta Luigi. «E poi» gli fa eco il figlio, «quasi tutti erano rotti o spiegazzati». In fondo, concludono, i milioni «non è la gran cuccagna che si crede».
La morale del racconto di Guareschi: «Non amareggiamoci per via dei milioni che non abbiamo; nelle sere di primavera e d’estate mettiamoci alla finestra a guardare le stelle: sono miliardi, non milioni. E sono tutte nostre». Ciò è un bel commento a quel che chiede il papa quando, facendo proprio il consiglio di san Francesco, spinge per «una rinuncia a fare della realtà un mero oggetto di uso e di dominio». C’è da guadagnarci tanto con questa rinuncia. Quanto? Si guadagna il di più che c’è tra il niente e il tutto. E questo tutto non è poco.
Guareschi doveva commentare, con i suoi racconti, il catechismo della Chiesa cattolica, esaudendo un desiderio di papa Giovanni XXIII se è vero quello che avrebbe riferito don Giovanni Rossi. Chissà perché, Guareschi non lo fece. Ma – non è mai troppo tardi – può farlo adesso, con l’enciclica di papa Francesco. E con questo si è colmata una lacuna.
(Fine)