Uno degli aspetti più rilevanti del magistero di Benedetto XVI, ciò che tra l’altro gli ha creato le incomprensioni maggiori, riguarda l’importanza che questo pontefice ha attribuito alla ragione umana nell’esperienza della fede. Checché se ne dica, dopo Benedetto XVI nessuno potrà più mettere in contrapposizione fede e ragione, dal momento che egli ci ha sufficientemente dimostrato quanto entrambe siano strettamente vincolate alla verità, nella quale non può esserci contraddizione.
Spesso si inserisce la fede in un quadro di riferimento etico, dimenticando che non tutto il male è riconducibile a un disordine morale. C’è anche un “disordine della ragione” che porta l’uomo ad avere una considerazione di sé che non corrisponde alla realtà. Che porta l’uomo, per esempio, a collocarsi al posto di Dio e a rivendicare, in ragione di ciò, un potere assoluto. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, a cominciare dalla tragedia di questa “guerra mondiale a pezzi”, per riprendere un’espressione di Papa Francesco, che viene combattuta in tante parti del mondo.
Per Papa Benedetto, la ragione umana, se usata correttamente, ha la capacità di comprendere le ragioni degli altri, abbattendo i muri e le contrapposizioni. Fu questo che lo spinse a pronunciare il noto discorso di Ratisbona, nel corso dell’incontro con i rappresentanti della scienza nel settembre 2006. Un discorso che, come si sa, fu contestatissimo soprattutto nella parte dove si affermava che “la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole”, riprendendo un giudizio dell’imperatore Manuele II Paleologo. Fu un discorso, come si è detto, che generò una certa ostilità ma che aveva lo scopo, secondo la visione ratzingeriana, di dimostrare come in una fede che si accordi con la ragione umana non possa esserci violenza.
Le contestazioni divennero ancora più vibrate quando a papa Ratzinger si rimproverò di aver riaperto il caso Galileo, rivendicando la razionalità della posizione della Chiesa, una posizione che avrebbe indotto il San’Uffizio a condannare lo scienziato.
La prima osservazione da fare dopo tanti secoli e particolarmente dopo la riabilitazione di Galileo da parte del Papa san Giovanni Paolo II è che la posizione della Chiesa non coincide necessariamente con le sentenze del tribunale del Sant’Uffizio. Basti pensare al caso di padre Pio, il santo di Pietrelcina condannato dal Sant’Uffizio con sentenza inappellabile eppure, sempre grazie a San Giovanni Paolo II, dichiarato santo.
La stessa cosa si potrebbe dire del caso Galileo, non ritenendo vincolante, per la Chiesa in quanto tale, il giudizio espresso dal tribunale ecclesiastico che lo condannò. Nonostante ciò, come sappiamo, la Chiesa ha voluto assumersi le proprie responsabilità per una piena riabilitazione, riconoscendo le ragioni della scienza.
Il problema sollevato da Papa Benedetto è che la scienza, proprio perché fondata sulla ragione, deve riconoscere che vi siano altre ragioni, oltre quella scientifica, che devono essere tenute presenti in un processo storico aperto al progresso scientifico. E proprio il caso Galileo è eloquente in questo senso.
Alle motivazioni di carattere scientifico presentate da Galileo Galilei, il cardinale Bellarmino propose di aggiungere anche argomenti di carattere teologico che riteneva altrettanto validi. Bellarmino aveva seguito l’istruttoria del processo che, in questa fase, aveva avuto più il carattere di una disputa teologica che di un processo penale. Erroneamente si attribuisce al cardinale, che tra l’altro aveva una grande preparazione scientifica, la condanna di Galileo; in realtà, quando lo scienziato fu condannato, Bellarmino era morto già da dieci anni.
Nonostante quello che si pensi oggi, Bellarmino e Galileo erano legati da un rapporto di amicizia molto forte; anche per questo, il cardinale aveva preso in seria considerazione il modello astronomico copernicano che era alla base della scienza galileiana. E bisogna dire che aveva trovato la soluzione ai contrasti che erano scaturiti attorno a queste nuove teorie da parte non tanto del mondo ecclesiastico quanto – è facile immaginare – da parte degli astrologi che all’epoca avevano un potere enorme. Secondo Bellarmino, la Chiesa non può che riferirsi alla visione del cosmo come è nella parola rivelata del Salmo 19: “Narrano i cieli la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento”.
È in questo Salmo che, riteneva Bellarmio, è contenuta la visione astronomica del cristiano. Proprio al versetto numero 5 di questo Salmo si dice che il Signore “pose una tenda per il sole”, un modo per esprimere, nella concezione ebraica, la stabilità del sole. Se dunque nella concezione pagana il sole viene rappresentato su un carro che si muove da una parte all’altra delle regioni celesti, nella Bibbia vediamo invece che il sole si accampa in una tenda e resta accampato, cioè immobile.
Galileo non volle cogliere questa mano tesa che era il fondamento teologico che Bellarmino voleva attribuire al nuovo modello astronomico. Galileo preferì attribuire alla teoria di Copernico un carattere rivoluzionario, contrapponendolo alla visione geocentrica delle teorie tolemaiche.
Si tratta, come si può ben notare, di una contrapposizione tutto sommato poco significativa. Il modello eliocentrico, infatti, funziona perfettamente se applicato al sistema solare. Ma non è questo che interessava principalmente l’astronomia premoderna che considerava il cosmo nella sua interezza. In altre parole, un modello geocentrico, al di fuori del sistema solare, conserva nonostante tutto la sua affidabilità.
Si ritiene che i tolemaici sostenessero che la Terra fosse al centro del cosmo. Interessante è quanto osserva a questo proposito Franco Piperno, che tutti conoscono per i suoi trascorsi di leader nell’estrema sinistra degli anni Settanta ma che nella sua “seconda vita” è oggi un apprezzato astrofisico e docente universitario. Secondo Piperno dire che la Terra è al centro dell’universo, come veniva rappresentato da Tolomeo, non vuol dire che la Terra fosse esattamente “il” centro, come vuole la vulgata illuminista; vuol dire semplicemente che era “al” centro, cioè in prossimità del centro.
Bisogna dire che, nonostante una certa approssimazione, la visone tolemaica consentiva di fare calcoli astronomici con sufficiente precisione. Ricorda Piperno che anche babilonesi e cinesi, molto prima di Galileo dunque, erano capaci di fare previsioni astronomiche precise, tanto che ci fu il caso di un astronomo cinese che fu decapitato per non aver previsto nel 1050 l’esplosione di una supernova.
Alla luce di tutto ciò, meritano dunque una certa comprensione le resistenze che Galileo trovò tra i suoi contemporanei i quali non avevano tutti i torti nel ritenere non necessaria la sostituzione di un modello astronomico che mostrava di funzionare e che consentiva di fare calcoli che risultavano esatti. Ogni studente che fa un esercizio di matematica e vede che il risultato finale è esatto è portato a ritenere che anche il procedimento seguito sia esatto. Evidentemente non sempre è così.
Questi furono i pregiudizi con i quali Galileo si trovò a fare i conti. È ovvio che tali pregiudizi erano diffusi anche tra i cristiani e certamente questi hanno avuto la loro influenza sui giudici del Sant’Uffizio che condannò Galileo.
Papa Benedetto XVI ha voluto ricordare che, per quanto ingiusta sia stata la condanna di Galileo, anche la posizione dei giudici aveva una sua razionalità. È stata questa un’ipotesi sulla quale il mondo della scienza non ha voluto confrontarsi e che portò al rifiuto di far intervenire Papa Benedetto XVI all’università romana della Sapienza nel gennaio 2008. Con questo rifiuto si voleva affermare il potere assoluto della scienza riguardo alla verità che come tale non ha bisogno di confrontarsi con chi esercita la ragione da altri punti di vista. Il mite Papa Benedetto accettò l’umiliazione di rinunciare a pronunciare il suo discorso.
Il mondo della scienza, ad ogni modo, dovrebbe riflettere sulle conseguenze di una concezione che vede la scienza come detentrice esclusiva della verità. Lo abbiamo visto nel corso della pandemia come tanta gente rifiuti questo potere sovrastante della scienza sulla vita concreta delle persone, questa presunzione del mondo scientifico di attribuirsi un ruolo sacerdotale di depositario della verità.