Vladimir Putin – Immagine da Kremlin.ru, CC BY 4.0 via Wikimedia Commons
di Paolo Tritto
Anna Andreevna Achmatova è stata una poetessa russa nata nel 1889 presso Odessa in Ucraina. Negli anni Trenta del secolo scorso era già un’affermata poetessa, ma fu probabilmente davanti al carcere pietroburghese delle Croci che ebbe la sua consacrazione come poeta nazionale.
«Ho trascorso diciassette mesi» raccontò, «a fare la coda presso le carceri di Leningrado. Una volta un tale mi “riconobbe”. Allora una donna dalle labbra bluastre che stava dietro di me e che, certamente, non aveva mai udito il mio nome, si ridestò dal torpore proprio a noi tutti e mi domandò all’orecchio (lì tutti parlavano sussurrando): “Ma lei può descrivere questo?” E io dissi: “Posso”».
Cosa volevano quegli infelici che la poetessa descrivesse? Per lunghe ore, ogni giorno Anna Andreevna se ne stava in attesa, muta, con un pacco di viveri davanti alle carceri delle Croci dove era rinchiuso il figlio Lev. Lì aspettava l’unica notizia che poteva sperare di strappare alle guardie carcerarie: nel caso queste avessero rifiutato il pacco, sarebbe stato il segno che suo figlio era stato ucciso.
Compose così Requiem, un poemetto che sarà uno dei suoi componimenti più intensi; sarà anche un modo di tradurre in versi le sue stesse lacrime e le lacrime di un popolo “di cento milioni” – come disse – oppresso dal regime comunista. Quanto dolore in quei versi e in quel cuore materno! Ma non fu quello il più acuto dei dolori che l’Achmatova dovette provare.
Lev Nikolaevič Gumilëv – così si chiamava il figlio della poetessa – trascorse quindici anni di reclusione, parte in regime di carcere duro, parte in campo di concentramento. Quando finalmente il figlio fece ritorno dal Gulag, la madre Anna Andreevna, oltre a dover stare ben attenta che non ci facesse ritorno – cosa non infrequente nei paesi comunisti – si trovò di fronte ai difficili quanto imprevisti rapporti con lui che purtroppo manifestò la terribile convinzione di essere stato trattenuto nel lager per colpa della madre, per il presunto rifiuto di lei a chiedere la grazia.
Sebbene la circostanza fosse del tutto falsa e frutto soltanto del lavaggio del cervello cui fu sottoposto Lev dagli agenti del Kgb negli anni della detenzione, fu impossibile pervenire a un chiarimento; il figlio arriverà alla definitiva rottura nei rapporti con la madre, con la quale mai più volle riconciliarsi.
Da quel momento, il nome di Gumilëv starà a indicare il definitivo trionfo della menzogna sul cuore dell’uomo e su ogni sentimento di umanità se è vero che aveva potuto sradicare perfino il più elementare dei sentimenti umani: l’incondizionata fiducia che ogni figlio ha verso sua madre.
Il nome di Lev Gumilëv sembrava fosse destinato a perdersi nell’oscuro labirinto esistenziale di un uomo qualunque; invece qualcuno improvvisamente, in un preciso momento della storia, lo tirerà fuori. Questo “qualcuno” sarà Vladimir Putin, un uomo proveniente da quel Kgb che aveva piegato e plagiato Gumilëv e milioni di altri uomini.
È bene soffermarsi su questo, per l’importanza che i servizi di intelligence sembrano attribuire a questo passaggio della storia russa contemporanea, cruciale per comprendere gli sviluppi della società post-sovietica, l’assetto del potere e particolarmente l’attuale occupazione russa dell’Ucraina. Gnosis, rivista dei servizi di intelligence del governo italiano, nel n. 4 del 2021 scrive: «ha fatto molto parlare di sé in particolare il neo-eurasismo più radicale, rappresentato principalmente da Aleksandr Dugin, il cui orientamento appare per molti versi lontano dagli eurasisti degli anni Venti-Trenta del Novecento, ma riprende alcuni aspetti della visione di Gumilëv».
Gnosis ricorda che nel discorso all’assemblea della Federazione Russa del 12 dicembre 2012 Putin citò “non casualmente” Gumilëv, deceduto quindici anni prima. Perché questa citazione? Chi ha conosciuto Gumilëv ricorda il suo stato d’animo di fronte allo sgretolamento del regime sovietico e quanta sofferenza personale manifestava per il crollo dell’URSS, proprio lui che del sistema repressivo di quel regime era stato una vittima.
Su Putin, tutto questo esercitava una certa diabolica suggestione; significava che nell’anima russa era ancora viva la nostalgia di quel regime sovietico che era crollato, nostalgia che però era viva non soltanto tra chi era stato legato al regime comunista ma, incredibilmente, anche tra chi ne era stato la vittima. Per Putin la Russia poteva essere l’esempio di un regime tenuto in piedi non soltanto dalla volontà di un potere poliziesco ma anche dalla ferma volontà delle vittime di questo regime.
Paradossalmente, per realizzare questo, per dare forza a questa tendenza, Putin aveva bisogno di far proprio il pensiero di Gumilëv, per il quale il crollo dell’URSS consisteva in un collasso soltanto ideologico che non avrebbe dovuto interessare anche l’intero sistema di potere. Questo perché le basi del potere russo, per Gumilëv, non erano propriamente ideologiche ma poggiavano su un sistema storico, culturale e geopolitico basato su propri specifici principi, distinto sia dall’Europa sia dall’Asia, da cui deriverebbe la forza della Russia. In sostanza egli vedeva il mondo dominato da cinque grandi potenze mondiali: Stati Uniti, Europa, Cina, Russia e Islam.
Ma, in quell’assemblea del 12 dicembre 2012 la Federazione Russa era posta di fronte a questo frustrante interrogativo: come mai Stati Uniti, Europa, Cina e Islam hanno trovato la strada per imporsi sullo scenario mondiale mentre il potere della Russia stentava a venir fuori? Per Putin la spiegazione è molto semplice. Come Gumilëv, egli pensa che è necessario ripristinare l’influenza che la Russia aveva sui territori ex-sovietici; questo, non necessariamente occupando quei territori, anche cioè nel pieno rispetto della loro indipendenza politica.
Cosa non ha consentito di poter recuperare questo ruolo egemonico, questa influenza? «Questo progetto d’integrazione eurasiatica» scrive Aldo Ferrari su Gnosis, «ha avuto meno successo di quanto si sperasse al Cremlino, soprattutto per la mancata partecipazione dell’Ucraina».
Difficilmente Vladimir Putin desisterà da usare le armi per dare compimento al suo progetto eurasiatico e difficilmente lascerà in pace l’Ucraina. In lui c’è tanto di quel cuore di pietra di Lev Nikolaevič Gumilëv quando si rifiutò di riabbracciare sua madre. Sarebbe necessario che la sorda Russia si riconcili con Anna Achmatova, la poetessa di sangue ucraino, e con l’amore materno che ha generato il suo popolo.
Questo potrà mai avvenire? Anna Achmatova è ancora là che aspetta che a suo figlio sia restituito un cuore di carne. Scrisse una volta: «Una voce mi chiamava confortevole, / Dicendo: “Vieni qui, lascia / Il tuo paese peccaminoso e sordo, / Lascia la Russia per sempre. / Laverò le tue mani del sangue, / Trarrò dal tuo cuore la nera vergogna, / Con un nuovo nome coprirò / Il dolore di sconfitte e di offese.” / Ma calma e indifferente / Mi tappai con le mani gli orecchi / Perché da questo discorso indegno / Non fosse profanato lo spirito afflitto» (Piantaggine, 1917).
Si deporranno le armi e la Russia si riconcilierà con la madre ucraina? Come si diceva, sarebbe difficile crederlo, se non fosse per quella promessa fatta dal Signore: «vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne» (Ezechiele 36,26).
La riconciliazione della Russia con la madre-Ucraina è impossibile agli uomini. È comunque quello che bisogna continuamente implorare, sperando più di ogni umana speranza. È quello che l’Europa intera, con cuore fraterno, deve incessantemente implorare per il bene del popolo ucraino, per il bene del popolo russo. Non c’è altra strada per la pace.
articolo interessante. aiuta a chiarire quali possono essere le motivazioni della guerra.