Angeli imprendibili volano in cielo. Il capitano Amato in Afghanistan.

Dalla seconda torretta del blindato, il capitano Giuseppe Amato si sporse fuori. Nell’estate del 2005, insieme ad alcuni soldati tedeschi, percorreva il tratto di strada che portava su un’altura poco distante da Kabul, dove bisognava installare delle antenne per le telecomunicazioni. Al passaggio dell’ingombrante automezzo militare, le automobili accostavano per liberare il passaggio; a un certo punto, però «intravidi un bambino» scrive Amato, «che armeggiava con il suo aquilone per farlo volare. Eravamo ormai a pochi metri da lui. Il piccolo, evidentemente preso dall’euforia e dall’impazienza di far decollare il suo giocattolo, probabilmente non avvertì i segnali di richiamo, e non si accorse che stavamo sopraggiungendo. Lanciò l’aquilone proprio nel momento in cui stavamo transitando. Ecco, fatto! Prendemmo in pieno l’aquilone, disintegrandolo».

Giuseppe Amato, ufficiale dell’esercito italiano, è stato impegnato in due diverse missioni a Kabul, presso il comando NATO, nell’ambito degli impegni assunti dall’ISAF a supporto del governo afgano. Ha scritto un libro edito da Mursia e intitolato L’eco dei miei passi a Kabul dove parla della sua missione e dei rapporti con le istituzioni governative afgane, ma dove racconta anche dei tanti incontri, spesso imprevisti, con uomini, donne, bambini di questo popolo sconosciuto e poverissimo, ma straordinariamente vivo. Il capitano Amato ha presentato questo libro in varie città d’Italia; l’ha presentato anche nella mia città che è anche la sua: Matera.

Credo, comunque, che l’evento più importante sia stato il suo intervento al Meeting di Rimini. Non soltanto perché, come ha detto lui stesso, varcando la porta del Meeting «mi sono sentito una persona viva, con un cuore che pulsava». Ma anche perché – e di ciò forse non ne era consapevole nemmeno Amato – l’inizio di questa realtà ultratrentennale che è il Meeting di Rimini, tra le altre cose, è legato proprio all’Afghanistan. Ricordo che la prima edizione del Meeting vide la presentazione di un “Reportage dall’Afghanistan” con l’intervento di un importante reporter francese,  di un esule e di Sergio Stocchi che ebbi la fortuna di avvicinare e al quale chiesi, con una certa timidezza giovanile, un autografo sul libro sull’Afghanistan che aveva appena pubblicato con Jaca Book. Stocchi mi guardò divertito e meravigliato; mettendo la firma sulla mia copia del suo libro, mi disse alcune parole per farmi capire che lui non era uno di quegli scrittori famosi ai quali si va a chiedere un autografo. Non saprei cosa dire di Sergio Stocchi, ma a me sembrava una specie di Lawrence d’Arabia e il suo libro credo sia stato una delle più importanti testimonianze della grandezza del popolo afgano, della sua insospettabile creatività, della sua anima. Per far comprendere il valore storico di quel reportage dall’Afghanistan e dell’incontro al Meeting di Rimini, devo anche aggiungere che appena un anno prima aveva avuto inizio la sanguinosa occupazione sovietica dell’Afghanistan, evento al quale bisogna far risalire gran parte delle cause dell’instabilità che minaccia ancora oggi il mondo intero, dopo essersi manifestata in modo così terribile l’11 settembre del 2001.

Non so se di questo fosse consapevole il capitano Amato – dicevo – ma, per tutti questi motivi, la presentazione del suo libro mi sembra racchiudesse lo spirito iniziale della storia del Meeting tutta intera. Insomma, era per me come riproporre lo stesso bigbang del Meeting. E avere questo libro tra le mani mi ha dato la stessa emozione che provai quando da Stocchi sentivo per la prima volta parlare di questo remoto paese che era l’Afghanistan. Un’emozione di meraviglia per l’insospettabile senso del bello che si porta dentro il popolo di questo paese apparentemente primitivo. Scrive Amato: «Nei mercatini e lungo le strade di Kabul non era insolito vedere tappeti esposti sulle bancarelle, e donne e bambini alle prese con fili da annodare. Questo spettacolo aveva quasi galvanizzato la mia attenzione, per cui spesso rimanevo imbambolato a guardare, con quale destrezza e con quanta velocità e competenza, bambini e donne creavano delle vere e proprie opere d’arte. Quella miriade di colori impastati con gusto mi riportavano infatti alla mente i campi variopinti dove giocavo da piccolo nel mio paese d’origine. Mi sembrava di essere tornato bambino e di rivedere, attraverso quella geografia di colori disegnati, i colori della mia terra».

È la consapevolezza di una stretta corrispondenza tra la terra afgana e la propria terra d’origine – credo – la genialità del racconto del capitano Amato. «Spesso mi prendeva un senso di malinconia, lontano com’ero da casa e dai miei affetti. Ma poi, semplicemente incontrando la  gente genuina del posto, curva sotto il pesante fardello della sofferenza e della povertà, ritrovavo me stesso e mi aprivo a parlare e a condividere con loro pensieri e momenti di vita. Certe situazioni, inoltre, mi riportavano alla mente storie semplici della mia terra di origine, la Basilicata, sofferente e sempre in cerca di riscatto».

È dunque questo il “metodo” che applicherà il soldato Amato in terra afgana. La forza di una terra come la Basilicata che riesce da sempre a trovare una possibilità di riscatto, pur nella secolare condizione di sofferenza, di arretratezza, di svantaggio. E il capitano ha capito che in terra afgana bisognava portare questa saggezza popolare che proveniva dalla sua terra d’origine. Nelle strade di Kabul, incontrando uomini e donne provati da una vita vissuta al limite estremo della sopravvivenza, Amato riconosceva la sofferenza della sua stessa terra. Di fronte alla quale non poteva restare indifferente. Un giorno, racconta, «mi diressi verso il nostro Quartier Generale, dove quattro persone mi stavano aspettando. Tra queste vi era un ragazzo. Ci muovemmo tutti insieme verso la sala dove di lì a poco si sarebbe svolta la riunione. Tre dei quattro, tutti occidentali e molto probabilmente già in confidenza, cominciarono a chiacchierare tra loro. Il ragazzo invece restò in disparte, a una decina di metri indietro rispetto al gruppo dei tre. A questo punto, mi affacciai a lui per tenerlo d’occhio e assicurarmi che non avesse strane intenzioni. Improvvisamente mi porse la mano e si presentò: “Piacere, io sono Jawal”. […] Jawal sollevò la testa, si fermò, mi fissò negli occhi, cominciò a singhiozzare e, piangendo disperatamente, mi disse: “Qui a Kabul ci sono migliaia di soldati da quando gli americani hanno subito l’attacco dell’11 settembre, ma che cos’è cambiato? Io non ho un lavoro, ho studiato e non so come vivere. Perché sono così miserabile? Perché mi merito questo?”»

È difficile per un soldato, come ha confessato il capitano Amato al Meeting di Rimini, tirar fuori la propria umanità. Ma di fronte a una realtà come questa, come l’Afghanistan, anche un soldato capisce che non è chiamato a tirar fuori le armi, ma la propria umanità. Amato si adoperò perché Jawal trovasse un lavoro come traduttore. Come si adoperò per curare una bambina che rischiava di perdere la vista, perché fosse operata in un ospedale occidentale. Spinto semplicemente dall’educazione ricevuta da bambino e che gli faceva donare gratuitamente tutto: «Nabizada non riusciva a staccare le braccia dal mio collo, era felice e continuava a gridare all’impazzata parole incomprensibili, ma che certamente volevano esprimere una grande riconoscenza. Dopo qualche minuto si calmò, mi offrì del tè e, traboccante di gioia, mi aggiornò su Saljuki. La bambina era stata operata in Germania, stava bene, andava a scuola e coltivava un sogno: quello di diventare dottoressa. Ero felice. Quell’incontro con Nabizada aveva sgombrato la mia mente da ogni altro pensiero e aveva riconfermato in me la convinzione che a nulla valgono i fiumi di parole o le strade infiorate di buoni propositi».

In nessun altro posto come l’Afghanistan, probabilmente, è vero quello che dice il capitano Amato quando ricorda che “a nulla valgono i fiumi di parole”. Perché l’Afghanistan è un posto dove spesso l’uomo non può fare altro che riconoscere la propria impotenza. «Il bambino si chiamava Fazel e aveva circa cinque anni. Gli mancavano i due incisivi superiori e sulla fronte aveva stampati due occhi neri e vispi. I capelli erano rasati a zero. Sembrava un bambino molto vivace, sorrideva a tutti e nonostante fosse senza gambe si muoveva in continuazione sulla sedia a rotelle. Cercai nelle mie tasche. Avevo solo un pacco di chewing gum e glielo diedi. Lui lo aprì immediatamente, si mise in bocca quattro compresse alla menta che cominciò a masticare con un’avidità impressionante. Quel bimbo mi fece molta tenerezza e volli intrattenermi con lui ancora un po’. Quasi a rincuorarlo, cominciai a porgli qualche domanda e lui senza esitazione mi rispose. Fazel veniva da un villaggio a sud dell’Afghanistan e un anno prima, mentre giocava con altri due amici, era saltato su una mina perdendo entrambe le gambe. Orgoglioso, mi puntualizzò che del gruppo dei suoi amici, lui era il più veloce e che per acchiapparlo non sarebbe bastata una sola persona. Da circa un anno, avendo perso le gambe, non correva più, però era convinto che gli sarebbero ricresciute. Era certo che, grazie alle medicine che i dottori gli somministravano, le gambe sarebbero rinate diventando anche più veloci di quelle precedenti. A quel punto nutriva la certezza che sarebbe stato imprendibile».

La certezza del piccolo Fazel, in fondo, non è senza fondamento. Né lui, né nessuno degli angeli può correre con le proprie gambe. Ma il cielo di Kabul è popolato da una moltitudine di angeli imprendibili come Fazel. Forse è proprio questo il significato di tutti quegli aquiloni che i ragazzi liberano, con l’arrivo della primavera, nel bellissimo cielo afgano.

Lo scopo della missione del capitano Amato a Kabul e di ogni soldato impegnato nell’ISAF è quello di favorire la crescita delle istituzioni democratiche nell’area. Qualcuno ha parlato del compito di “esportare la democrazia” e su questo è aperto un dibattito, anche molto vivace. Ma anche in questo caso, come ama dire Amato, “a nulla valgono i fiumi di parole”. Contano i fatti, come questo raccontato in L’eco dei miei passi a Kabul: Madomi era uno dei tanti ragazzi afgani che si aggiravano attorno al Quartier Generale e che si rendeva utile facendo di tutto, dai lavori di pulizie al giardinaggio. Scrive Amato: «Aveva all’incirca 18 anni, ma l’espressione stampata sul viso era sempre triste. Si trattava di una tristezza profonda, di quelle che non riesci a mascherare neanche con un sorriso affettato».

Ma una mattina, Madomi si presentò con una diversa espressione del viso. «Fissai Madomi negli occhi e gli chiesi: “Why are you so happy this morning?”. Non mi concesse neanche il tempo di concludere la domanda che cominciò a parlare: per la prima volta nella sua vita Madomi aveva votato. […] Lo ascoltavo in silenzio. Madomi si sentiva importantissimo e invincibile. Nonostante le minacce, la paura di attentati, lui si era recato al seggio. Aveva votato, aveva esercitato un diritto al quale molti di noi occidentali attribuiamo scarsa importanza e che a volte addirittura snobbiamo». Più che esportare la democrazia in Afghanistan – si potrebbe aggiungere – dovremmo importarla, o almeno avremmo qualcosa da imparare da Madomi.

«Condividere queste esperienze» ha affermato il capitano Amato nel suo intervento al Meeting di Rimini, «ci riguarda come italiani perché è proprio in questi teatri impegnativi che vengono fuori il carattere e le doti del soldato italiano. Il soldato italiano è quell’uomo che è pronto a servire la Patria senza se e senza ma. È quell’uomo che ha permesso, a livello internazionale, di coniare un termine, di cui sono sicuro ognuno di voi sia orgoglioso in quanto italiano; il termine è “metodo italiano”. Cos’è questo “metodo italiano”? È il cuore, l’essenza della cultura e delle tradizioni che noi italiani, in maniera esclusiva, riusciamo a esportare e a far apprezzare ovunque. È quel senso umanamente cristiano della vita che ci permette di godere dell’appoggio, dell’amicizia, di popoli stranieri. Anche quando nelle loro terre siamo costretti a girare con mezzi blindati, con un elmetto in testa, con un giubbetto antiproiettile, con un fucile in mano. Ecco, è questo il metodo italiano».

Nell’estate del 2005, insieme ad alcuni soldati tedeschi, il capitano italiano percorreva a bordo di un blindato il tratto di strada che portava su un’altura poco distante da Kabul. Inaspettatamente, un bambino aveva lanciato l’aquilone proprio nel momento in cui il mezzo militare stava passando. L’aquilone era stato preso in pieno e ridotto in mille pezzi. Ma dopo un po’ il blindato aveva rallentato, quindi si era fermato. Scrive Amato: «Sul lato destro della strada c’erano una casupola e, davanti ad essa, un tavolo sul quale spiccavano mille colori, ognuno dei quali era un aquilone. A terra, accanto alla pseudo bancarella, erano impilati i rocchetti di legno che servivano per avvolgere il filo. Il co-pilota del Fuchs, un ragazzo tedesco di circa 24 anni, scese dal mezzo, si avvicinò al venditore di aquiloni, gli indicò quello che voleva acquistare e nel giro di qualche secondo ritornò indietro da noi con in mano un grosso aquilone dello stesso colore di quello distrutto, verde. Era chiaro. Tutti noi che eravamo a bordo del mezzo ci eravamo immedesimati nel bimbo ed eravamo giunti alla stessa conclusione: non potevamo accettare l’idea di lasciarlo lì da solo, con il giocattolo a pezzi. In quel momento, quando il militare tedesco risalì a bordo con il grosso aquilone, ebbi la conferma che la mia intuizione era stata giusta. Mi sentii rinato. Con il permesso del suo capitano, il pilota invertì il senso di marcia e ripercorse la strada in direzione opposta. Dopo cinque o sei chilometri, riecco il bimbo. Era lì, seduto al margine della strada polverosa, a contemplare quello che era rimasto del suo aquilone. I due grossi mezzi si fermarono nuovamente, il copilota scese e porse al bimbo l’aquilone nuovo di zecca. li bimbo rimase lì fermo, impassibile. Sembrava paralizzato. Ma, appena toccò il nuovo aquilone e realizzò che non stava sognando, lo strappò dalle mani del militare tedesco e cominciò a piangere. Erano lacrime di gioia o lo sfogo ritardato di una rabbia compressa? Questo dubbio fu accantonato dalla certezza che il bambino in quel momento vedeva appagato un desiderio che qualcuno aveva soffocato. Finalmente avvertii un sentimento di liberazione e mi sentii più sereno. Non avvertivo nemmeno più il caldo e il fastidioso prurito della polvere mista al sudore che mi imbrattava il volto. Gioivo per il solo fatto che il bambino gioisse».

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